Il venticinque: la festa d’Aprile, fiori, canti, le lacrime, gli amori; le donne disobbediscono, portano armi per le vie delle città liberate, le donne piangono già il giorno dopo se non ballano… è la festa che scioglie dai lacci tutti i sentimenti tutti i valori tutti i desideri, quel composto multicolore che si chiama speranza: quando tutto sembra possibile.
Sono nata in Aprile e ne porto i segni e paradossalmente (così sembra) è soprattutto il mio femminismo a portarne i segni. Il bisogno di una storia riscritta, a cominciare dal passato fino al futuro. Il bisogno e anche il desiderio di vedere finalmente la zuppa accanto alle armi (scadenti l’una e l’altra), l’astuzia accanto alla rabbia, l’accoglienza accanto al rifiuto, le donne e gli uomini che hanno creato il Venticinque aprile e tutto (tutto) questo ancora si vede poco, occultato da un dopo normalizzatore e rancoroso. Mi hanno raccontato, questo Venticinque aprile, che a Milano in via Padova, dove i treni attraversavano lentamente le case popolari in alto su un ponte ferroviario, i soldatini in divisa e armi scappavano, entravano nelle case dalle finestre che si affacciavano sui binari, mollavano divide e armi e uscivano tranquilli in borghese dal portone: salvi. Le armi poi andavano in montagna. Geniale! E chi volete che ci fosse al di là delle finestre, in quelle stanze, a dirigere questo bellissimo pericolosissimo gioco?
Carla Capponi, Gino Vermicelli. Camilla Ravera, Antonio Gramsci. Rossana Rossanda, Eraldo Gastone. Mio padre e mia madre, e tutti i “piccoli maestri” di Meneghello, e tutte le piccole maestre, e tutte e tutti a cercare la libertà per tutte e tutti e anche la propria: anche la propria. Leggo e rileggo storie e non mi sento sola e sogno l’umanità come immenso calderone di potenzialità, dunque di molte possibili primavere. Buon Venticinque Aprile!
Lidia Campagnano