Federica Tourn è una giornalista professionista. Come freelance si è occupata di
migranti, religioni, diritti umani, mafie, femminismo. Ha scritto reportage da diversi
Paesi – Siria, Libano, Bosnia, Ucraina, Namibia- per testate nazionali ed estere. Ha
collaborato fra gli altri con D Repubblica, Il Manifesto, Left, Rolling Stone, Vanity
Fair, Jesus, Famiglia Cristiana, Eastwest, Millennium il Fatto Quotidiano. È stata
coordinatrice del quotidiano online di Riforma, l’organo delle chiese protestanti in
Italia. È una delle autrici del volume La Parola e le pratiche. Donne protestanti e
femminismi, pubblicato da Claudiana.
Federica, come nasce il tuo interesse per le esperienze di ribellione? E in particolare
per le esperienze di ribellione di donne che hanno costellato l’ultimo decennio della
storia mondiale?
Le esperienze di ribellione sono sempre affascinanti da investigare perché mettono
in questione l’ordine costituito e in genere portano degli elementi di riflessione su
un possibile cambiamento: ci dicono che la storia non è statica ma dinamica, che il
mondo in cui viviamo è sempre suscettibile di un altro punto di vista. In questo caso
mi interessava evidenziare che, negli ultimi anni, i movimenti delle donne sono stati
l’esperienza di cambiamento politico più fertile a cui abbiamo assistito a livello
globale. Infatti sono le donne a scendere in piazza non soltanto per difendere i diritti
sessuali e riproduttivi, ma anche per il clima, la difesa dell’ecosistema, della
democrazia e della giustizia sociale. Le loro lotte comprendono e si allargano a
includere ogni tipo di disuguaglianza: etnica, economica, religiosa, di genere, di
classe.
Nel tuo libro introduci a quanto ti proponi di indagare narrando un episodio
autobiografico che ti è occorso nel 2015, a Beirut, quando, per indagare il sistema di
sfruttamento dei lavoratori migranti di quel Paese, tu ed un tuo collega vi siete finti
una coppia italiana in cerca di personale domestico. Un episodio scelto non
casualmente, capace di mettere in luce più “verità” non troppo difformi le une dalle
altre, che ruotano intorno alla cancellazione dell’identità.
La terribile condizione delle bonnes in Libano, schiave in casa delle padrone
borghesi, è la rappresentazione sintomatica della complessità in cui ci imbattiamo
quando vogliamo parlare di sfruttamento, perché se è vero che il patriarcato
opprime tutte le donne, è altrettanto vero che alcune sono più sfruttate di altre.
Come insegna il femminismo intersezionale, alcune possono essere oggetto di
diversi tipi di oppressione (etnica, economica, di genere, come nel caso della ragazza
dell’Africa subsahariana costretta a emigrare per trovare lavoro in Libano) e altre,
pur subendo l’oppressione del marito e di una società maschilista, possono a loro
volta esercitare un potere violento su donne e uomini di diversa condizione
economica e sociale (come nel caso della maman libanese). Assumere questa
complessità è fondamentale per cercare di destrutturare un sistema ingiusto che
arriva a cancellare le identità delle persone – letteralmente, quando si tratta di
donne povere e alla mercè dei datori di lavoro, come le bonnes libanesi o moltissimi
altri casi d’impiego sommerso e sottopagato della manodopera femminile.
Dalla cancellazione dell’identità di una singola donna, a quella delle donne. Dei loro
diritti, dei loro luoghi. Quale la misura del passo sulla base delle tue indagini ed
esperienza?
Non nominare le donne (o le soggettività non eteronormate) porta inevitabilmente
alla loro cancellazione simbolica. Lo abbiamo visto di recente con la polemica sui
nomi delle professioni declinate al femminile: l’applicazione di una semplice regola
grammaticale si è trasformata una questione politica, capace di sollevare gli animi.
Penso che una reazione così violenta a una semplice constatazione (esiste la
desinenza femminile e va applicata) sia segno che in ballo c’è qualcosa di grosso, e
cioè ancora una volta la questione dell’identità: finché non nomino le cose, queste in
qualche modo restano nell’irrilevanza. Dunque, finché non dico “avvocata”, il fatto
che ci siano donne che da decenni esercitano la professione è tollerato dal sistema
maschile: ma se le nomino, salta il banco perché pretendo simbolicamente che sia
riconosciuto che esistono in quanto donne.
“Femen, le Moschettiere all’attacco di ogni integralismo; La valanga inarrestabile del
#MeToo; Maria 2.0, quando le donne decisero di prendersi la Chiesa; Nessuna sarà
lasciata indietro: la rivolta intersezionalista di Non Una di Meno; Polonia,
l’incessante resistenza contro l’oscurantismo; Il paradosso tunisino; La giustizia
alternativa del Tribunale delle donne di Sarajevo; Svezia, il femminismo di Stato che
fa paure alle destre; In Italia, dove il disagio è politico” … Sono alcuni tra i titoli dei
capitoli di cui tuo libro si compone. Scorrerli è interessante. Ci aiuta a seguirti nel tuo
disegnare un affresco composito, nel quale compaiono movimenti di donne spesso
trascurati, addirittura quasi sconosciuti, come movimenti d’importanza mondiale.
Quale il tuo obiettivo?
Ho scelto di raccontare alcuni dei tanti movimenti di ribellione che attualmente
costellano il pianeta mediando fra quelli che avevo conosciuto meglio, come quello
polacco o la protesta delle cattoliche tedesche, e quelli che secondo me sono una
pietra miliare, un punto di svolta nella realizzazione di una prospettiva femminista,
come l’esperienza della Confederazione della Siria del Nord. La mia intenzione era
quella di fornire un esempio di quanto varia è la riflessione delle donne, tanto più
fertile quanto più viene “dal basso”, dai margini della politica tradizionale.
Pagine importanti, messe a fine libro, paiono voler ricomporre le diverse voci e storie,
riconducendole ad un fatto che tutte le accomuna: sempre attorno alla libertà delle
donne a disporre del proprio corpo vi è (stato) un disaccordo da parte delle classi
egemoniche i cui valori continuano ad essere incentrati su maschilismo ed
eterosessualità.
Sul controllo del corpo delle donne si basa il potere patriarcale, sotto forma di
capitalismo sfrenato, integralismi religiosi e nuovi fascismi che in occidente
utilizzano l’immagine della “famiglia naturale” e della denatalità per rinchiudere
donne e soggettività Lgbtqia+ entro confini funzionali all’interesse di una minoranza.
Per dirla in modo semplice: qualcuno deve continuare a svolgere gratuitamente, o
quasi, quel lavoro di riproduzione sociale su cui si basa l’economia capitalista e se la
crisi mondiale ci dice che ci sono meno risorse, quelle poche devono continuare ad
andare a una ristretta fetta di maschi, bianchi e cisgender.
Denunci, sono tue parole, l’evidenza di “un’organizzazione mondiale reazionaria che
si batte con una strategia precisa per annientare i diritti riproduttivi”. Perché l’aborto
interessa tanto?
Come mi ha detto la politica svedese Gudrun Schyman, «Le destre colpiscono le
donne per indebolire i diritti umani». Togliere a una donna il diritto di abortire
significa spogliarla della sua integrità soggettiva, dichiarando che non è pari all'uomo
nel decidere di sé. Significa consegnare la sua vita nelle mani di altri, che sia un
uomo o lo Stato – una decisione che è, di fatto, una violenza e un lasciapassare per
altre violenze, perché una volta oltrepassato il limite del diritto all’intangibilità ogni
genere di abuso diventa possibile. Ma con il divieto dell’aborto non si attenta
soltanto alla libertà femminile ma anche a quella delle democrazie, che si fondano
sui diritti umani. Per questo le destre (anche estreme) oggi si focalizzano sulla
questione della famiglia tradizionale e sulle battaglie antiabortiste, anche e
soprattutto attraverso pervicaci campagne di marketing, portate avanti da potenti
organizzazioni pro life.
Quello che tratteggi è uno spaccato complesso, multiforme, non omogeneo. È
possibile guardare ad esso come motore di ricerca, per costruire un diverso modello
di società?
Senz’altro i movimenti delle donne sono uno straordinario bacino di coltura di idee,
pratiche e azioni indispensabili per immaginare un modello di società più giusto e
inclusivo. Ed è bello che, come sottolinea Giorgia Serughetti nella prefazione, questi
stimoli vengano non dai “centri del potere” ma dai margini come li intende bell
hooks, cioè da luoghi “altri”, in cui si fa esperienza di esclusione e dove però
fioriscono possibilità di rinnovamento creative e finora impreviste.